Con troppa leggerezza si tende ad associare l'aggettivo «kitsch» ai colorati paesaggi di Friedrich Kunath: proprio come l'artista altera nelle sue sculture le dimensioni di oggetti noti creando un effetto di straniamento, anche il pathos dei suoi dipinti viene infatti contrastato da elementi quali figure di fumetti o righe di testo. I suoi insoliti scenari si trasformano così in rappresentazioni ironiche, scherzose o nostalgiche dello stato d'animo contemporaneo.
Kunath riesce a creare la sua inconfondibile grafia pittorica sperimentando con diversi stili, tecniche e strategie espressive. Motivi ricorrenti delle sue opere sono paesaggi montuosi, tramonti e ambienti interni eseguiti nello stile del Romanticismo ma utilizzando colori vivaci, a volte sgargianti, che sembrano appunto «kitsch». Spesso a questi presunti idilli si sovrappongono dei corpi estranei realizzati ad inchiostro di China o stampati in serigrafia. Sopra un paesaggio si stagliano per esempio i contorni di un nudo femminile, in un'altra opera invece la volpe di un cartone animato ha trovato la strada per introdursi nell'iperreale mondo figurativo di Kunath. L'artista inserisce con disinvoltura anche spartiti o annotazioni scritte a mano, mentre a volte addirittura l'intera superficie del quadro è coperta di una sottile rigatura simile a quella dei quaderni di scuola – come per esempio in I don’t worry anymore. Nelle sue sculture crea dei momenti di ironia creando combinazioni inaspettate di oggetti comuni dalle proporzioni ingrandite. I titoli delle sue opere, che spesso sembrano versi di canzoni (e a volte lo sono davvero), sottolineano il tono di fondo melanconico che, nonostante l'ironia, affiora in tutta la sua produzione e dà voce all'isolamento dell'uomo contemporaneo e alla ricerca di mondi ideali.
Con i suoi vivaci dipinti figurativi e narrativi Kunath si afferma come protagonista di una nuova generazione di artisti che riportano all'attualità aspetti della pittura a lungo deprecati. Le sue opere sono state esposte già molto presto e ripetutamente in mostre personali e sono parte di importanti collezioni istituzionali come l'Hammer Museum o il LACMA di Los Angeles, il Walker Art Center di Minneapolis o il Frans Hals Museum di Haarlem.
Friedrich Kunath è nato a Chemitz (allora Karl-Marx-Stadt, Germania) nel 1974. Vive e lavora a Los Angeles (USA) dal 2007.
Campi di attività: pittura, disegno, scultura, film
“La fine è il mio inizio. Sono a Los Angeles da dieci anni e solo ora inizio a diventare californiano. Ma la mia California è popolata dalle ombre dell’Europa, anche se Novalis e Caspar David Friedrich ora condividono un bungalow sulle colline con le loro controparti della cultura pop contemporanea. È un po’ come se Arte e Merv Griffin producessero insieme un reality show.
Gli interni sono europei, e le finestre danno sul panorama della costa del Pacifico. Nel cielo si staglia una luna romantica, ma invece di illuminare rovine gotiche è incastonata nei colori primari dei costumi da bagno veneziani. La vita domestica del romanticismo in esilio, il profumo di una crisi di mezza età in arrivo, un sentore del sublime. Il familiare si intreccia con l’ignoto, finché i due non si riescono più a distinguere. Una tristezza che si fa strada tra gli abissi di una qualsiasi formulazione che ambisca alla finalità. Un invito nella mia mente, ma senza creare aspettative di trovare me, o te, al suo interno.
I romantici tedeschi ambivano a un rapporto non mediato con l’infinito. Ma a me sono riusciti a dare solo un altro mezzo per raggiungere la mediazione. Anche la California si professa una terra di rapporti non mediati, con se stessi, con gli altri, con la natura e, appunto, con l’infinito. La promessa è quella di un ritiro meditativo e di guru dell’auto-aiuto, e vale per persone naturali e per milionari, una vita non ostacolata dalla paura, un amore che non conosce panico da rifiuto. Eppure, cos’è la California se non un motore dell’intervento, un film o uno snapchat che ci lascia connessi come un filo telefonico reciso. Non è una sorpresa, forse. Come riconoscevano gli stessi romantici, può darsi che il modo migliore per avvicinarci all’infinito sia una serie di ironici riflessi prolungata indefinitamente.
Non mi sono mai identificato con l’autonomia essenziale per il mito classico del genio. Il mio lavoro è sempre stato mediato dai miei rapporti, con gli altri e con le loro immagini. Compongo e creo tramite l’interazione con gli altri, con gli attori, i materiali, i personaggi che popolano il mio mondo. Ma allo stesso tempo non riesco a sfuggire al cliché dell’artista che diventa un tutt’uno con l’opera d’arte, la sensazione che solo allora uno merita veramente il titolo. Es gibt kein richtiges Leben im falschen/There is no right life in the false/Non c’è vita giusta in quella sbagliata.
Così resta lo sciocco desiderio, quello di diventare un tutt’uno col dipinto. Un desiderio noto allo stesso modo alle scogliere di Rügen e di Big Sur. La Germania e la California, a modo loro, sono entrambi Paesi di sciocchi desideri. Ancora un riflesso della finitezza umana e del desiderio di qualcosa in più.”